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Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat

Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat

Pubblicato il 01 Aprile 2019 | 19:01

Considerato il luogo che ha ospitato il Premio Italia a Tavola non poteva mancare un focus sul vino, sia con le aziende presenti per gli abbinamenti ai piatti, sia con due masterclass.

Organizzate da Ais Toscana, i due momenti sono stati coordinati dall’attivissimo delegato regionale Massimo Rossi. Stiamo parlando di Artimino, toponimo che fin dall’epoca etrusca rimanda al vino e all’olio d’oliva. Luogo abitato fin dal Paleolitico, sacro per gli etruschi come testimoniano gli scavi in loco e il Museo ospitato nelle antiche mura. Dalla torre di accesso del suo raccolto borgo medievale si staglia, lungo un austero viale di cipressi, la magnifica villa medicea “La Ferdinanda”, voluta dal Granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici e progettata nel 1596 dall’architetto di corte Bernardo Buontalenti.

(Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat)

La vista si apre sui colli e sui vigneti del Montalbano, in quel Barco Reale, 4mila ettari recintati, all’epoca, da un muro alto due metri, al fine di trattenere la selvaggina in quella che era la riserva privata di caccia della famiglia medicea.

Qui da oltre tre secoli nasce una delle storiche denominazioni toscane, il Carmignano, una delle quattro aree “vocate” e tutelate (insieme al Chianti classico, al Valdarno di sopra e al Pomino), dal bando del 1716 di Cosimo III de’ Medici, prima delimitazione al mondo di denominazione di origine e disciplinare di produzione enologica, quasi un secolo e mezzo prima della ben nota classificazione bordolese di Napoleone III e qualche decennio antecedente quella dell’area del Porto da parte del Marchese do Pombal.

(Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat)

Nei suoi 732 ettari la Tenuta di Artimino, ora di proprietà della società che fa capo alla famiglia Olmo con la dinamica Annabella Pascale nel ruolo di ad, conta oltre 17mila piante di olivo e 80 ettari vitati che danno luogo a circa 500mila bottiglie l’anno, suddivise nelle denominazioni tipiche del luogo, di cui alcune sono state oggetto di una delle due masterclass Ais.

(Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat)

Tre le referenze prese in considerazione, decisamente le più rappresentative, il Poggilarca Carmignano docg, il Grumarello Carmignano Riserva docg e il raro Vin Santo di Carmignano docg, Occhio di Pernice.

(Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat)

Introdotta dal saluto di Annabella Pascale e dall’illustrazione del recente restyling comunicativo dei vini della tenuta (con la nuova grafica dell’etichetta che riporta l’anno di fondazione, il 1596, appunto) da parte della preparata responsabile comunicazione, la collega Claudia Cataldo, la parola è passata ai calici, analizzati dal giovane e valente sommelier pistoiese Valentino Tesi, vicecampione italiano Ais in carica, nonché recente vincitore del primo Master del Chianti Classico.

Del Poggilarca Camignano docg sono state analizzate due annate, il 2015 e 2016 entrambe frutto del nuovo corso aziendale affidato all’enologo Filippo Paoletti (soprannominato “mister Sangiovese” per la sua passione per il vitigno simbolo della viticoltura toscana), che ha preso le redini della cantina proprio con l’annata 2015.

Il Poggilarca è un Carmignano fatto con 70% Sangiovese, 20% Cabernet Sauvignon e 10% Merlot. Affina 10 mesi per la metà in botti grandi (il Sangiovese) e per l’altra metà (Cabernet e Merlot) in barrique di secondo passaggio. Poi ulteriore sosta di 4 mesi in bottiglia prima di essere commercializzato.

(Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat)

Il millesimo 2016, un’annata straordinaria per tutta la Toscana, si è presentato con un rubino compatto, con sprazzi residui di porpora. Al naso la fragranza di frutta rossa (ribes) e frutta nera (prugna, susina rossa) mista al floreale, cenni di lavanda. In sottofondo il vegetale terroso ed erbaceo del Cabernet Sauvignon a dargli personalità ed eleganza. Tannino energico ancora da smaltire ma alcolicità ben amalgamata. Da lasciarlo in cantina ancora un po’ (ne vale la pena).

Il 2015 al colore presentava qualche leggera sfumatura granata, ma qui il fruttato rimanda alla prugna matura, la frutta secca mentre il floreale ode alla violetta appassita, con un erbaceo di sottobosco. Freschezza gustativa del Sangiovese con tannino un po’ più setoso rispetto al 2016. Entrambi da abbinare a primi piatti importanti conditi con sugo di selvaggina.

Il Grumarello Carmignano Riserva docg è stato degustato nella difficile annata 2012 e in quella, decisamente migliore, 2013. In questo caso il blend è costituito da 70% Sangiovese, 20% Cabernet Sauvignon e 5% Merlot e 5% Syrah. Affina 24 mesi per la metà in botti di rovere di Slavonia da 30 e 50 hl (il Sangiovese) e per l’altra metà (Cabernet, Merlot e Syrah) in barrique di secondo passaggio. Segue ulteriore sosta di 12 mesi in bottiglia.

Saltando il 2014, che è stato un vero disastro per Artimino il Grumarello 2013, frutto di un’annata fredda, fa vibrare nel calice un rosso granato compatto con al naso una nitida ciliegia sotto spirito, tostato di caffè, tabacco, rabarbaro, china, cardamomo e un vegetale tenue, con effluvi di macchia mediterranea.Tannino fruttato, quasi piccante con bella persistenza con scia sapida, quasi iodata, e nota balsamica finale.

Il 2012 il rosso granato diventa pieno e all’olfattivo apre a profumi di frutta sciroppata, floreale secco da pot-pourri, eucalipto e liquirizia. Più scuro come profilo tannico, che fornisce la necessaria energia per garantirgli un bel potenziale d’invecchiamento. Abbinamento con lepre in salmì o cinghiale in umido.

Passando al Vin Santo, va precisato che non si tratta del classico Vin Santo dove il Trebbiano e/o Malvasia fanno la parte del leone con un 75%, ma del raro (nel caso di Artimino poco più di 2mila bottiglie annue) Vin Santo di Carmignano “Occhio di Pernice”, dove il disciplinare prevede almeno il 50% di Sangiovese (da cui il colore che dà il nome alla tipologia).
I grappoli, raccolti manualmente, vengono sistemati sui graticci di canna della vinsantaia e appassiti per circa 4 mesi. Dopo la spremitura il mosto insieme alla “madre” (le fecce nobili) riposa in piccoli caratelli di rovere da 50 litri, leggermente scolmi per accentuarne il processo ossidativo, per almeno 4 anni.

Anche in questo caso sono state due le annate degustate, quella attualmente in commercio, la 2011 e una quasi ventennale e ormai limitata da poche unità, la 2000, per mettere in evidenza l’evoluzione del vino con il trascorrere degli anni.

Il Vin Santo di Carmignano “Occhio di Pernice” di Artimino è un uvaggio di 50% Sangiovese più 10% ognuno di questi cinque vitigni: Canaiolo, Aleatico, Trebbiano toscano, Malvasia bianca lunga e San Colombano.

(Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat)

Il 2011 al calice si presenta con un colore topazio brillante con profumi di noce, mandorle tostate, agrumi canditi, miele di corbezzolo e pasta di mandorle. Persistenza infinità con dolcezza che scompare dopo l’attacco e lascia spazio alla salinità del sorso. Da abbinare a formaggi erborinati come gorgonzola o Stilton

Il 2000 al bicchiere appare di un mogano scuro con note eteree che aprono a profumi complessi di datteri, fichi secchi, mallo di noce, uva sultanina, carrube, marzapane, pasta di mandorle e miele di castagno. Strutturato ed avvolgente al palato tiene insieme una dolcezza equilibrata e una straordinaria vena acida. Da sorseggiare in pura meditazione, magari davanti ad un buon libro e un camino acceso.

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L’altra masterclass dell’AIS Toscana, curata da Massimo Castellati, si è concentrata su tre antichi vitigni autoctoni toscani quasi scomparsi, riscoperti o tenacemente tenuti in vita dalla caparbietà di singoli viticoltori. Degli autentici pezzi di memoria contadina dai nomi evocativi come Barsaglina, Pugnitello e Foglia tonda. Prima di passare alle note di degustazione vale la pena di tracciare un breve identikit di questi illustri antenati.

(Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat)

La Barsaglina (nota anche come Massaretta) la si ritrova soltanto nella provincia di Massa Carrara, anche se è ammessa nella coltivazione in tutta la Toscana.  È citata per la prima volta nel 1877, nel famoso saggio dedicato all’ampelografia italiana dell’illustre studioso piemontese, il Conte Giuseppe Di Rovasenda dei Conti di Melle.

Acino piccolo che tende all’ovoidale con colore della buccia blu/violaceo scuro, viene attualmente coltivata in poche decine di ettari ma con una tendenza all’aumento. Rientra nella Doc Candia dei Colli Apuani e le sperimentazioni di alcuni piccoli produttori, confermano quella spiccata tipicità gusto-olfattiva che, paradossalmente, è il medesimo motivo che avevano portato al suo abbandono da parte dei viticoltori.

Il Pugnitello è un vitigno originario probabilmente dell’area grossetana, con poche tracce storiche attestate. il nome sembra sia dovuto alla forma del grappolo, che ricorda quella di una piccola mano chiusa a pugno. Un vitigno a bacca nera, dall’acino arrotondato e dalla buccia molto pruinosa, di colore blu notte. Ha qualche somiglianza morfologica con il vitigno Montepulciano ma la forma del grappolo è diversa. Non è usato, almeno in maniera evidente, in nessuna Dop ma in qualche IGT come il Costa Toscana e il Montecastelli.

Dal Pugnitello si ottiene un vino di colore rosso rubino molto intenso con tonalità violacee. Al naso si presenta leggermente erbaceo mentre al palato rivela un gusto pieno, elevata gradazione alcolica, buona acidità e tannini di elevata finezza.

La Foglia tonda è quella dei tre che in uvaggio si ritrovava più spesso, fondamentalmente nell’area meridionale del senese ma, anticamente, in tutta la Toscana e l’Umbria. Ancora nella citata opera del Di Rovasenda si attesta la sua presenza nei vigneti del Castello di Brolio del Barone Ricasoli.

Praticamente scomparso per la presunta scarsa qualità vinificatoria è stato riscoperto di recente con buona fortuna e sta avendo un suo momento di gloria con buoni risultati nella DOC Orcia, a supporto del Sangiovese. Buccia decisamente pruinosa e quasi nera, grazie alla buona struttura tannica nel Chianti era usato per far corpo, in piccola percentuale, e lo rende più longevo. Il vino che se ne ottiene è corposo, ricco di colore, dotato di buon tenore alcolico, che si fonde perfettamente con il Sangiovese e apporta un gusto intenso, fruttato e floreale.

Venendo alla mini verticale di due annate proposta da Massimo Castellati per ognuno dei tre i vitigni, la 2015 e la 2011, di un’azienda che ha fatto del recupero dei vitigni antichi toscani una missione coraggiosa ed appassionata, la Mannucci-Droandi di Montevarchi che in poco più di mezzo ettaro dedicato a questa ricerca produce un migliaio di bottiglie a testa per i vitigni citati. Dal 2003 è certificata biologica ed è seguita, come enologo, da Gianfrancesco Paoletti.

Le due annate scelte sono molto diverse fra loro, la 2015 indubbiamente buona mentre la 2011 difficile a causa del gran caldo che ha stressato le uve. Questo per verificare come si comportano i tre vitigni al cambiare delle condizioni climatiche.

La prima a scendere in campo (è il caso di dire) è stata la Barsaglina, da bersi preferibilmente giovane e da pochi vinificata in purezza ma utilizzata spesso al posto del tradizionale Colorino.
In entrambi le annate la vinificazione avviene in tini grandi da 10hl, con macerazione prolungata di 20 giorni, poi affinamento per 14 mesi in barrique di secondo e terzo passaggio e infine 3 mesi di ulteriore sosta in bottiglia.

L’annata 2015 si presenta con un una bella pulizia olfattiva, con profumi di frutti neri e nota floreale con l’elemento distintivo di quella acidità che pulisce bene la bocca e predispone al nuovo sorso. Il 2011 si caratterizza da una massa estrattiva di maggiore concentrazione, con aromi di frutta cotta, amarena sciroppata, corteccia, sottobosco e arancia amara con lunga persistenza e finale lievemente balsamico.

(Vino e Artimino, un binomio millenario Due masterclass al Premio Iat)

Venendo al Pugnitello, riscoperto nel 1981 a Poggi del Sasso (Grosseto) nei vigneti sperimentali di San Felice – Progetto Vitarium dell’Università di Pisa e Firenze. Nel caso del Pugnitello Mannucci-Droandi, anch’esso in purezza, la vinificazione avviene in tini più piccoli, da 5 hl, con macerazione sempre di 20 giorni ma con 24 mesi di affinamento n barrique di secondo e terzo passaggio e successivi 3 mesi in bottiglia.

L’annata 2015 esprime un fruttato non esuberante, con profumi più chiusi ma delicati di spezie dolci, cannella, rabarbaro, china e cardamomo. In bocca è salino con tannino quieto, integrato con la componente fruttata che sul finale ha la meglio. Il 2011, è più carnale, con speziatura cupa e note di radici. Tannino ben integrato con acidità che supporta la nota calorica. Espansione aromatica di ginepro ed erbe aromatiche. Sorso piacevole e duraturo.

Per il vitigno Foglia tonda, che prende il nome dalla forma quasi a cuore della foglia, di Mannucci-Droandi, come per la Basaglina, la vinificazione avviene in tini da 10hl, con macerazione prolungata di 20 giorni, poi affinamento per 14 mesi in barrique di secondo e terzo passaggio e infine 3 mesi di ulteriore sosta in bottiglia.

Il millesimo 2015 ha sentori di viola, piccoli frutti e prugne secche, con una nota terragna. L’acidità fa insorgere la nota tannica che l’associa al Sangiovese valdarnese (con il quale sembra avere una lontana parentela) insieme all’impronta dinamica e aggressiva della beva. Nel 2011 fa capolino al naso il sottobosco del Sangiovese oltre all’amarena sciroppata, al cardamomo e alla noce moscata. Tannino sostanzioso. Anche qui si nota la buona resistenza all’annata siccitosa il che, come nel caso degli altri due vitigni analizzati, li rendono ottimi compagni di assemblaggio del Sangiovese.